Biografia | Biography

Giovanna Da Por

Biografia | Biography

Racconta di se | She talks about herself

Già in età prescolare mio padre di Rovereto, acquarellista dilettante,  mi portava alle mostre di Giovacchini in piazza Domenicani a Bolzano. All’uscita mi faceva notare l’ultimo piano del palazzo e le grandi finestre  che illuminavano gli studi degli artisti. Credo che lì nacque il mio sogno, ma anche dai racconti del fratello di mio padre che da giovane aveva recitato con l’amico Fortunato Depero.
Un corso estivo con il magico prof. Scherer e uno di modellazione con il prof. Dauru mi convinsero che la mia strada era il liceo artistico. 
Già da giovane sono diventata una assidua frequentatrice  della biennale d’arte di Venezia.
I viaggi con mio marito ingegnere architetto sono sempre stati finalizzati alla visita delle più importanti mostre nazionali e internazionali, come The italian Metamorphosis al Guggenheim di NewYork a cura di Germano Celant, alle nuove architetture nazionali e internazionali, ma anche la scuola di Chicago, Wright e ai siti archeologici e naturalistici. Mio figlio naturalista, già da piccolo ci aveva coinvolto nel porre maggiore attenzione ai problemi ambientali che noi uomini stavamo generando.
Lo studio permanente  della storia dell’arte sia antica che contemporanea è una  costante della mia vita che ho cercato di trasmettere con l’insegnamento di disegno e storia dell’arte presso il Liceo Scientifico Torricelli di Bolzano. E’ difficile dire quale corrente artistica e quali artisti mi abbiano influenzato, certo il mio bagaglio culturale non mi permette di essere  una pura artista gestuale. 
Tra gli altri ho amato Rauschenberg, che allora ritenevo il Michelangelo del nostro tempo. Ho volato sulle grandi opere di Basquiat e mi sono immersa con gioia nella visione delle opere di Maria Lai prima alla Biennale di Venezia e poi al Maxxi con la forza della sua opera completa. 
Mi incuriosisce l’esperienza dell’arte digitale di movimento luce, colore e suono certificati NFT.
In gioventù mi sono cimentata con l’arte astratta, ma sempre con un forte movente, cercando di dare un mio piccolo contributo alla messa in luce di tanti problemi. 
Paolo Tomio redattore della rivista icsArt mi ha chiesto, fra le altre cose, in una lunga intervista,  cosa significhi la mia  definizione di “arte autoingaggiata”.
È la necessità di essere stimolata da una forte motivazione che nasce dalle  riflessioni sui  temi ambientali e sociali.    
Negli anni ottanta, non potendo fare la scultrice affrontando la pietra, iniziai a dipingere su grandi pannelli composizioni metafisiche, spatolando con forza, velature su velature, mescolando le terre d’affresco con resina che mi davano nuovi effetti gioiosi. Le paure ecologiche e il timore di un evento nucleare mi portarono a dipingere  città finte di latta e di pietra che vagavano nello spazio con il loro carico di animali meccanici. Quando li dipingevo mi chiesi se potevo realizzarli veramente. 
Così ho progettato e realizzato alcune copie di “C’era una volta il gatto” e “C’era una volta la volpe”in un mondo che ha distrutto la natura. I materiali usati sono stati l’alluminio e il ferro tagliati con il laser in un officina di un anziano fabbro.
Negli anni duemila, dopo l’ennesimo femminicidio ho iniziato il progetto “Feminae” sulla violenza contro le donne che continua tutt’ora in parallelo con altri progetti. Ho cercato di esprimere con materiali belli e leggeri, come pizzi e carte trasparenti, la determinazione, la forza e la fatica del doppio lavoro delle donne. Nel 2007 nell’anno delle pari opportunità per tutti fui selezionata con l’opera “Trazione fatale” per la stampa di tre milioni di francobolli. In quell’occasione a Roma il ministero mi fece allestire una grande mostra del progetto Feminae.
Dal 2007 le opere a getto d’inchiostro e raggi U.V.A. impresse su plexiglass, si alternano ai dipinti su tela e carta  velina trattata con resine. 
Le installazioni che ho realizzato sono fatte con centinaia di metri di carta velina indurita con resine sostenute da leggere aste di legno come per l’opera “Palinsesti”, “La tenda da campo delle tre religioni monoteiste”, mentre volano gioiose nell’installazione “Aria”.       
Nella mostra “Interni” del progetto Feminae ho chiuso in una gabbia di tubi per impalcature un plexiglass raffigurante un corpo femminile segnato e numerato come pezzi di carne da macello.
Il problema del Tibet, da noi, salvo rari casi passava inosservato. La stampa non evidenziava l’invasione cinese per una certa opportunità politica internazionale. Mi capitò di ricevere un libro di fotografie del Tibet eseguite prima e dopo l’invasione, dove si vedeva la distruzione di molte opere. Lessi molto sull’argomento, perché per me il Tibet assieme a Machu Picchu rappresenta uno dei due luoghi magici del pianeta. Mi aveva colpito il trattamento riservato ai monaci dissidenti. Ho pensato di dare un mio piccolo segnale. Ho costruito i “Mandala” di stoffa come dei microcosmi che si avvolgono verso il centro e svolgendosi definiscono il limite con lo spazio esterno. Ho recuperato vecchi tessuti di famiglia e li ho fatti rivivere sapendo a chi apparteneva ogni pezzetto. Ho trasferito i mandala su plexiglass con la tecnica a getto d’inchiostro. 
Nella mostra sul Tibet figurava anche una torre di alluminio  a ricordare i capitelli votivi, punti di raccolta delle stoffe preghiera. La torre è dotata di una fessura dalla quale si intravvedono dei guanti di plastica cinese.
Quello dei migranti è un dramma che mi tocca profondamente. Nel progetto Feminae con i mandala spezzati ho parlato dei sogni infranti delle donne migranti morte in mare e della metamorfosi che implacabilmente compirà la natura.
Quando realizzo un’opera , la sfida che mi pongo  è cercare di esprimere i concetti attraverso le metafore perché i simboli  svelerebbero troppo facilmente i miei pensieri.
Le mie opere si articolano su tre livelli di lettura: il primo deve dare sollievo e piacevolezza attraverso il colore e le forme, il secondo deve far porre delle domande e il terzo è per chi sa leggere l’opera.
Mi piacerebbe che il mio stile fosse definito “relazionale”.
Per me l’arte è il prodotto di persone variamente sensibili indipendentemente dal genere.
Dopo mio figlio e mio marito l’arte è la vita.  Durante la pandemia andavo nel mio studio dietro l’angolo di casa. Ho placato il senso di  vuoto esterno quando ho fatto uscire i miei Avatar dalle Wunderkammern con il compito di riportarmi i ricordi dei prati e delle montagne allora proibiti.

Even as a preschooler, my father from Rovereto, an amateur watercolorist, used to take me to Giovacchini’s exhibitions in Piazza Domenicani in Bolzano. On the way out, he would point out to me the top floor of the building and the large windows that illuminated the artists’ studios. I think that was where my dream was born, but also from the stories of my father’s brother who had acted as a young man with his friend Fortunato Depero . A summer course with the magical Prof. Scherer and one in modeling with Prof. Dauru convinced me that my path was the art high school.           
Even at a young age I became a regular attendee of the Venice Art Biennial.
Travels with my engineer-architect husband have always been aimed at visiting the most important national and international exhibitions, such as The Italian Metamorphosis at the Guggenheim in NewYork curated by Germano Celant, new national and international architecture, but also the Chicago school, Wright and archaeological and nature sites. My naturalist son, even as a child, had involved us in paying more attention to the environmental problems that we humans were generating. 
The permanent study of both ancient and contemporary art history is a constant in my life that I have tried to pass on by teaching drawing and art history at the Liceo Scientifico Torricelli in Bolzano. It is difficult to say which artistic current and which artists have influenced me, certainly my cultural background does not allow me to be a pure gestural artist.
Among others, I loved Rauschenberg, whom I then considered the Michelangelo of our time. I have flown over the great works of Basquiat, and I have immersed myself with joy in viewing the works of Maria Lai first at the Venice Biennale and then at the Maxxi with the power of her complete oeuvre.
I am intrigued by the digital art experience of movement light, color and sound NFT certificates.
In my youth I tried my hand at abstract art, but always with a strong motive, trying to make my own small contribution to highlighting so many issues.
Paolo Tomio editor of icsArt magazine asked me, among other things, in a long interview, what my definition of “self-engaged art” means.
It is the need to be stimulated by a strong motivation arising from reflections on environmental and social issues.
In the 1980s, unable to be a sculptor by tackling stone, I began to paint metaphysical compositions on large panels, spatulate vigorously, glaze upon glaze, mixing fresco earths with resin that gave me new joyful effects. Ecological fears and the fear of a nuclear event led me to paint fake cities of tin and stone that roamed space with their cargo of mechanical animals. When I painted them, I wondered if I could actually make them.
So I designed and made some copies of “Once upon a time there was a cat” and “Once upon a time there was a fox “in a world that destroyed nature”. The materials used were aluminum and laser-cut iron in an elderly blacksmith’s workshop.
In the 2000s, after yet another feminicide, I started the “Feminae” project on violence against women, which continues to this day in parallel with other projects. I tried to express with beautiful and light materials such as lace and transparent papers, the determination, strength and fatigue of women’s double work.
In 2007 in the year of equal opportunities for all I was selected with the work “Fatal Traction” for the printing of three million stamps. On that occasion in Rome the ministry had me set up a large exhibition of the Feminae project.
Since 2007, inkjet and U.V.A. ray works imprinted on plexiglass have alternated with paintings on canvas and resin-treated tissue paper.
The installations I made are made with hundreds of meters of resin-hardened tissue paper supported by light wooden poles as for the work “Palimpsests,” “The Field Tent of the Three Monotheistic Religions,” while they fly joyfully in the installation “Air.”
In the exhibition “Interiors” of the Feminae project, I enclosed in a cage of scaffolding tubes a plexiglass depicting a female body marked and numbered like pieces of butcher’s meat.
The issue of Tibet, by us, except in rare cases went unnoticed. The press did not highlight the Chinese invasion because of a certain international political expediency. I happened to receive a book of photographs of Tibet taken before and after the invasion, where one could see the destruction of many works. I read a lot on the subject, because for me Tibet along with Machu Picchu represents one of two magical places on the planet. I had been struck by the treatment of the dissident monks. I thought I would give my own little sign. I constructed fabric “Mandalas” as microcosms that wrap toward the center and uncoiling define the boundary with outer space.
I salvaged old family textiles and revived them knowing to whom each piece belonged. I transferred the mandalas to plexiglass using the inkjet technique.
The Tibet exhibition also featured an aluminum tower to remind us of votive capitals, collection points for prayer cloths. The tower has a slit from which Chinese plastic gloves can be glimpsed.
That of migrants is a drama that touches me deeply. In the Feminae project with the broken mandalas, I spoke of the broken dreams of migrant women who died at sea and the metamorphosis that nature will implacably accomplish.
When I make a work , my challenge is to try to express concepts through metaphors because symbols would too easily reveal my thoughts.
My works have three levels of reading: the first should give relief and pleasantness through color and shapes, the second should make people ask questions, and the third is for those who can read the work.
I would like my style to be called “relational.”
For me, art is the product of variously sensitive people regardless of gender.
After my son and husband, art is life.  During the pandemic I used to go to my studio around the corner from home. I soothed the sense of external emptiness when I brought out my Avatars from the Wunderkammern with the task of bringing back memories of the then forbidden meadows and mountains.